Società

L’Italia è post-populista e malinconica. Perchè?

La società italiana entra nel ciclo del post-populismo, e alle vulnerabilità economiche e sociali strutturali ora si aggiungono gli effetti delle crisi dell’ultimo triennio: pandemia, guerra, inflazione, morsa energetica.
Si levano quindi istanze di equità non più liquidabili come ‘populiste’. Per il 92,7% degli italiani l’impennata dell’inflazione durerà a lungo, per il 69,3% il proprio tenore di vita si abbasserà, e il 64,4% sta intaccando i propri risparmi. Cresce perciò la ripulsa verso privilegi ritenuti odiosi, con effetti divisivi. Per l’87,8% sono insopportabili le differenze eccessive tra le retribuzioni dei dipendenti e dirigenti, per l’84,1% le tasse troppo esigue pagate dai giganti del web, per l’81,5% i facili guadagni degli influencer. Ma non si registrano fiammate conflittuali o mobilitazioni collettive. E alle ultime elezioni il primo partito è stato quello dei non votanti, quasi 18 milioni, il 39% degli aventi diritto.

Una nuova età dei rischi

Il tradizionale intreccio lineare ‘lavoro-benessere-economico-democrazia’ non funziona più. Si è sedimentata la convinzione che tutto può accadere, anche l’indicibile. L’84,5% degli italiani è convinto che eventi geograficamente lontani possano cambiare improvvisamente la quotidianità e stravolgere i destini. Il 61,1% teme che possa scoppiare un conflitto mondiale, il 58,8% che si ricorra all’arma nucleare, il 57,7% che l’Italia entri in guerra.
Oggi il 66,5% degli italiani (+10% vs 2019) si sente insicuro. I principali rischi globali percepiti sono guerra (46,2%), crisi economica (45,0%), virus letali e nuove minacce biologiche (37,7%), instabilità dei mercati internazionali (26,6%), eventi atmosferici catastrofici (24,5%), e attacchi informatici su vasta scala (9,4%).

Si inceppano i meccanismi proiettivi

Quella del 2022 però non sembra un’Italia sull’orlo di una crisi di nervi, anche se i meccanismi proiettivi tipici della società dei consumi, che in passato spingevano a fare sacrifici per modernizzarsi e arricchirsi, hanno perso la capacità di orientare i comportamenti collettivi. Gli italiani non sono più disposti a fare sacrifici, il 36,4% nemmeno per fare carriera e guadagnare di più. Pensando a pandemia, guerra e crisi ambientale l’89,7% degli italiani prova tristezza.
È la malinconia a definire oggi il carattere degli italiani, un sentimento corrispondente alla coscienza della fine del dominio onnipotente ‘dell’io’ sugli eventi e sul mondo.

Il senso di insicurezza

Al vertice delle insicurezze personali c’è il rischio di non autosufficienza e invalidità (53,0%), il 51,7% degli italiani teme di rimanere vittima di reati, il 47,7% non è sicuro di poter contare su redditi sufficienti in vecchiaia, il 47,6% ha paura di perdere il lavoro, e il 42,1% di dover pagare di tasca propria prestazioni sanitarie impreviste. Eppure, oggi siamo il Paese statisticamente più sicuro di sempre. Dal 2012 i crimini più efferati sono diminuiti del -42,4%, le rapine del -48,2%, i furti nelle abitazioni del -47,5%, i furti di autoveicoli del -43,7%.
Nell’ultimo decennio sono aumentate solo alcuni reati, violenze sessuali (+12,5%), estorsioni (+55,2%), truffe informatiche (+152,3%).

Fiducia di consumatori e imprese, a novembre torna a salire

Che gli italiani scorgano qualche segnale di ottimismo nel futuro per quanto riguarda la situazione economica e sociale del Paese? Pare proprio di sì, almeno stando alle ultime rilevazioni dell’Istat. L’Istituto di Statistica, infatti, a novembre 2022 stima un aumento sia dell’indice del clima di fiducia dei consumatori (da 90,1 a 98,1) sia dell’indice composito del clima di fiducia delle imprese (da 104,7 a 106,4).
Tutte le serie componenti l’indice di fiducia dei consumatori sono in miglioramento. Anche i quattro indicatori calcolati mensilmente a partire dalle stesse componenti presentano una variazione congiunturale estremamente positiva. In particolare, il clima economico e il clima futuro registrano le variazioni più accentuate (rispettivamente da 77,6 a 95,2 e da 88,8 a 102,8); il clima personale e quello corrente aumentano in modo più contenuto (nell’ordine da 94,3 a 99,0 e da 91,0 a 94,9).

Imprese, si vede rosa in quasi tutti i comparti 

Per quanto riguarda il sentiment delle imprese, il clima di fiducia migliora in tutti i comparti (nel settore manifatturiero l’indice passa da 100,7 a 102,5, nei servizi da 96,0 a 98,8 e nel commercio al dettaglio da 109,0 a 112,2) ad eccezione delle costruzioni dove l’indice diminuisce da 157,5 a 151,9. Considerando le componenti dei climi di fiducia delle imprese, nel comparto manifatturiero si rileva un peggioramento dei giudizi sulla domanda e un incremento delle giacenze di prodotti finiti, mentre sono in deciso miglioramento le attese sulla produzione. Nelle costruzioni tutte le componenti peggiorano. In merito invece al comparto dei servizi di mercato, le attese sugli ordini registrano un marcato miglioramento mentre il saldo dei giudizi sugli ordini e quello sull’andamento degli affari diminuiscono. Nel commercio al dettaglio, infine, le attese sulle vendite crescono decisamente mentre i relativi giudizi si deteriorano; le opinioni sulle scorte rimangono sostanzialmente stabili.

Il dato risale dopo quattro mesi di flessione

“Dopo quattro mesi consecutivi di flessione il clima di fiducia delle imprese torna ad aumentare trainato soprattutto dalle aspettative sulla produzione nel comparto manifatturiero, da quelle sugli ordini nei servizi di mercato e dalle attese sulle vendite nel commercio al dettaglio” commenta l’Istat. Anche il clima di fiducia dei consumatori presenta una dinamica positiva dovuta soprattutto ad opinioni sulla situazione economica del paese, comprese quelle che riguardano il tasso di disoccupazione, in deciso miglioramento, seguite da attese sulla situazione economica familiare e da opinioni sulle possibilità di risparmio in ripresa.

La risposta alla crisi alimentare? Arriva dalle startup agrifood sostenibili 

Che la crisi alimentare a livello globale sia un’emergenza è un dato di fatto, e non solo negli angoli più sfortunati del nostro pianeta. Secondo le ultime previsioni della Fao, il livello di insicurezza alimentare globale, che nel 2021 ha raggiunto 828 milioni di persone che soffrono la fame e altri 2,3 miliardi di persone in stato di moderata o severa insicurezza alimentare, è destinato a peggiorare ulteriormente a causa degli effetti della pandemia, degli eventi climatici estremi e della guerra in Ucraina. 

Allarme rosso anche in Italia

Come dicevamo, la crisi non riguarda solo paesi lontani. In Italia nel triennio 2019-21 il 6,3% della popolazione ha avuto problemi di accesso al cibo e la situazione si è aggravata. Le risposte alla crisi e alle sfide epocali del settore agroalimentare si attendono in primo luogo dai decisori politici. Un ruolo importante è giocato anche dalle collaborazioni cross-settoriali tra enti pubblici locali e settore privato (profit e non profit). Al contempo le imprese rafforzano i propri sforzi di innovazione per introdurre soluzioni nuove alle sfide di sostenibilità del settore.

Il ruolo strategico delle start up

Di 7.337 startup agrifood censite nel quinquennio tra il 2017 e il 2021 a livello mondiale, il 34% (2.527 startup) persegue uno o più degli obiettivi di sviluppo sostenibile inclusi nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Le soluzioni sviluppate dalle startup agrifood mirano innanzitutto a ottimizzare l’utilizzo delle risorse (SDG 12 target 12.2, 30%); inoltre, promuovono la tutela degli ecosistemi terresti e d’acqua dolce (SDG 15 target 15.1, 21%). A seguire, le startup investono su soluzioni per sensibilizzare e incentivare l’adozione di stili di vita e pratiche sostenibili (SDG 12 target 12.8, 17%), aumentare la produttività e la capacità di resilienza dei raccolti ai cambiamenti climatici (SDG 2 target 2.4, 17%) e favorire il turismo sostenibile e le produzioni locali (SDG 8 target 8.9, 16%). In misura più modesta le giovani imprese puntano a tutelare i piccoli produttori (SDG 2 target 2.3, 12%), ridurre eccedenze e sprechi alimentari lungo la filiera (SDG 12 target 12.3, 11%), assicurare il lavoro a tutti e una remunerazione equa (SDG 8 target 8.5, 8%) e promuovere l’uso efficiente e accesso equo alle risorse idriche (SDG 6 target 6.4, 7%). Questi sono alcuni dei risultati della ricerca dell’Osservatorio Food Sustaiability della School of Management del Politecnico di Milano. “Di fronte alle sfide epocali ed emergenti del settore, le startup agrifood propongono soluzioni innovative che puntano a migliorare la sicurezza alimentare e favorire la transizione a modelli di produzione e consumo più sostenibili e inclusivi – afferma Paola Garrone, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Food Sustainability -. Le giovani imprese sono le prime a farsi promotrici di tecnologie, servizi e modelli di business innovativi, cogliendo nuove opportunità di mercato. I modelli di business proposti sono essenzialmente orientati alla sostenibilità, per cui diventano il soggetto ideale per osservare da vicino i trend di innovazione e l’introduzione di nuove pratiche di sostenibilità nell’agrifood”.

Le startup nel mondo

Guardando alla concentrazione delle startup agrifood orientate alla sostenibilità nei diversi Paesi del mondo la Norvegia risulta al primo posto (25 startup agrifood, di cui il 60% sostenibili), seguita da Israele (119 startup, di cui il 58% sostenibili). In terza posizione si classifica la Nigeria (64 startup, di cui il 50% sostenibili), seguita dalla Polonia (20 startup, di cui il 50% sostenibili). L’Italia si trova al ventitreesimo posto (85 startup agrifood, di cui il 35% sostenibili). Sul fronte dei finanziamenti, invece, considerando le sole startup agrifood con chiara indicazione geografica e che hanno ricevuto almeno un finanziamento, il 40% è rappresentato da startup sostenibili. Queste ultime hanno raccolto complessivamente 6,4 miliardi di dollari dal 2017 al 2021, con una media pari a 7,3 milioni di dollari per azienda. 

Inflazione e gender gap: le donne la “sentono” di più

Secondo uno studio realizzato da tre economisti della Banca centrale europea, esiste un ‘gender gap’ anche per l’inflazione, ed è ‘abbastanza sostanzioso’. Se l’inflazione è un problema per tutti, le donne la percepiscono di più rispetto agli uomini, hanno aspettative sulla sua crescita più alte, e ricadute dirette sulle abitudini di spesa. Lo studio esamina i dati dell’ultimo sondaggio di agosto sulle aspettative dei consumatori, il Consumer Expectations Survey, o CES, dai quali emerge che le aspettative di donne e uomini divergono di quasi un punto percentuale. La causa principale della differenza è che le donne pongono maggiore enfasi sull’aumento percepito dei prezzi del cibo, settore che pesa più di altri sulle aspettative generali.

Uomini più fiduciosi sulle loro aspettative

La seconda ragione è un atteggiamento diverso di fronte al futuro: “Gli uomini sono più fiduciosi circa le loro aspettative”, spiegano gli esperti, mentre le donne sono più negative sull’andamento dell’economia, più incerte sulle prospettive e tendono ad arrotondare le stime al rialzo. Gli uomini poi non danno molto peso al cibo, preoccupandosi invece per il costo dei trasporti, dei vestiti e delle case. Una differenza che potrebbe riflettere “la diversa divisione dei compiti di casa tra uomini e donne”. Anche perché questa distinzione non esiste nei single. Nel campione che compone il sondaggio della Bce, di età tra i 35 e i 49 anni, la percezione dell’inflazione nei diversi settori è identica per entrambi i sessi: solo nelle coppie ci sono differenze.

Donne più preoccupate per l’aumento dei prezzi del cibo

Gli economisti stimano che quel punto percentuale maggiore nella percezione delle donne aumenti le loro aspettative sui prezzi del cibo di 0,40 punti. La percezione degli uomini, invece, ha un impatto di appena 0,26 punti. I numeri si ribaltano quando si guarda agli altri settori, perché sono parecchi quelli su cui gli uomini hanno aspettative maggiori delle donne. Accade sulla sanità (0,12 punti percentuali rispetto ai 0,11 delle donne), sull’immobiliare (0,11 contro 0,08), sui vestiti (0,12 contro 0,07) e sui trasporti (0,07 contro 0,02).

Perché è importante scorporare i dati del sondaggio in base al genere

Scorporare i dati dei sondaggi in base al sesso, sottolinea il blog della Bce, è molto importante per il futuro della politica monetaria. “Le percezioni influenzano i comportamenti in una miriade di modi”, spiegano gli economisti. Ad esempio, da questi ultimi dati si evince che “le donne potrebbero essere meno disposte a cancellare, rinviare o ridurre le proprie vacanze quando i prezzi dell’energia salgono, o potrebbero essere meno influenzate dai prezzi quando devono comprare un’auto”, con evidenti ricadute sulla domanda aggregata. Per i banchieri centrali, riporta Ansa, è importante capire come i consumatori formano e aggiornano le loro aspettative di inflazione, poiché “aiuta a identificare quale tipo di inflazione è importante per i consumatori”, e “migliora l’analisi delle implicazioni macroeconomiche delle decisioni di politica monetaria”.

Inflazione: i consumatori italiani sono i più pessimisti d’Europa

Secondo la media calcolata dalla Banca centrale europea nella nuova indagine sulle aspettative dei consumatori, per i prossimi 12 mesi gli italiani si attendono un livello dell’inflazione superiore al 6%. Un valore pari a un intero punto percentuale al di sopra delle aspettative dei consumatori di Belgio, Germania, Spagna e Olanda, che per i 12 mesi prevedono attese medie di inflazione intorno al 5%.
Sono quindi i consumatori italiani i più pessimisti nell’area euro sulle attese dell’inflazione. All’opposto, le aspettative di inflazione più contenute sono quelle dei consumatori francesi, che secondo l’ultima rilevazione della Bce presentano una media poco sotto il 4%.

In Italia anche il maggior livello di inflazione percepita sui 12 mesi passati

Va rilevato poi che i consumatori italiani sono anche quelli che mostrano il maggior livello sull’inflazione percepita guardando indietro ai 12 mesi passati, con un livello mediano pari al 10%.
Secondo l’indagine della Bce i consumatori di Spagna e Olanda hanno percepito una inflazione poco sotto il 9%, quelli del Belgio all’8%, i consumatori della Germania poco sopra il 7%, e anche in questo caso, il valore più basso si registra tra i consumatori della Francia, con una inflazione mediana percepita attorno al 5%.

Giugno: tra gli europei l’inflazione percepita è del 8,6%

La Bce ha recentemente pubblicato per la prima volta anche i risultati di una nuova indagine proprio sulle aspettative dei consumatori europei, che riguarda diverse voci e di cui l’inflazione è il primo aspetto. A giugno l’inflazione percepita dai consumatori europei sugli ultimi 12 mesi è stata del 8,6% in media, e del 7,2% a livello mediano. La ‘media’ è il numero che risulta dalla divisione di tutti i dati riportati per il numero di partecipanti a un sondaggio. La ‘mediana’, invece, è il numero che si trova nella posizione centrale quando i dati vengono ordinati in maniera crescente. Per l’insieme dell’area euro la Bce fornisce entrambi, mentre sui singoli Paesi pubblica grafici unicamente con il livello mediano.

Aspettative per i prossimi tre anni: 4,6%

Secondo i dati relativi a un sondaggio effettuato a giugno, riporta Askanews, l’aspettativa di inflazione sui prossimi 12 mesi è invece stata del 6,6% in media e del 5% a livello mediano a livello dell’area euro. Sui prossimi tre anni la media delle attese di inflazione dei consumatori è del 4,6%, mentre la mediana è del 2,8%. Sulle aspettative dei consumatori per i prossimi tre anni le attese degli italiani restano le più elevate, ma con un divario meno marcato: poco sopra il 3% nella Penisola, al 3% in Olanda e Spagna, poco sotto il 3% in Belgio, attorno al 2,5% in Germania e al 2% in Francia.

Italiani in vacanza alla scoperta della cucina tipica e locale

Secondo la ricerca Doxa/Consorzio di Tutela Bresaola della Valtellina, il trend per le vacanze estive di quest’anno è la scoperta dei cibi locali con una storia da raccontare. Per 1 italiano su 2 (48%) la cucina tipica locale esprime la vera identità dei luoghi in cui è nata, e per 3 italiani su 10 si degusta alternando un pasto completo a tanti spuntini tipici a base di finger food. Un altro fattore di attrazione è la nostra varietà territoriale ed enogastronomica: per 4 italiani su 10 (38%) la cucina locale è sempre diversa, a seconda della cultura e della tradizione del territorio, e per il 33% parla di autenticità, in quanto specchio della memoria locale. Inoltre, per i 28 milioni di italiani che andranno in vacanza il cibo è la voce più importante del budget, con un terzo della spesa turistica destinato alla tavola.

Un viaggio non è completo se non ci si immerge nella tradizione gastronomica

In Italia si contano 5333 tipicità regionali, tra pane, pasta, formaggi, salumi, conserve, frutta e verdura, dolci e liquori tradizionali, che compongono il patrimonio enogastronomico nazionale. Dietro ognuno di questi prodotti vi è una storia di cultura, tradizione e trasmissione di un sapere antico legato ai territori, e un viaggio non è completo se non ci si immerge nell’offerta gastronomica e nella scoperta delle tradizioni territoriali. I prodotti tipici della Puglia, ad esempio, sono 150, tra DOP, IGP e tipicità, come la Burrata di Andria IGP o il Pane di Altamura DOP, il rustico e il pasticciotto leccesi, souvenir perfetti da riportare a casa al termine della vacanza.

Alla scoperta di vini e ricette regionali

Una regione ricca di storia e cultura tanto quanto di vini straordinari, prodotti caseari e salumi: la tradizione gastronomica siciliana è frutto di influenze delle varie culture mescolate sull’isola. La cucina e i piatti proposti sono spesso elaborati e comprendono ingredienti della terra e del mare insieme e variano in base al territorio. La cucina toscana è invece una delle più antiche tra le cucine regionali del Belpaese. Molti dei piatti tipici mantengono la loro ricetta originale, caratterizzata da preparazioni semplici, con ingredienti di origine contadina, come il pecorino toscano, la finocchiona, i salumi di Cinta Senese o il Lardo di colonnata IGP. 

Dalla Valtellina alle Marche

Se si parla di Lombardia e montagne, il pensiero immediato va alla Valtellina. Quest’estate il Consorzio di Tutela Bresaola della Valtellina con la campagna ‘Destinazione Bresaola’ propone un’interpretazione in chiave street food delle ricette della tradizione con i prodotti tipici locali. Una delle mete preferite da stranieri e italiani è anche il Trentino-Alto Adige, con formaggi, mele, insaccati e patate che regnano in molti dei suoi piatti tipici. Quella marchigiana invece, riporta Askanews,  è una terra di sapori semplici, piatti poveri che al pescato fresco della costa coniugano le prelibatezze dell’entroterra. Un tour enogastronomico regionale spazia dal tartufo bianco di Acqualagna ai legumi, dal Ciauscolo IGP fino ai vini, come il Lacrima di Morro d’Alba. 

Dal 2035 stop alle auto a benzina e diesel. Cosa ne pensano gli automobilisti?

Dal 2035 scatterà il blocco per le vendite di automobili nuove a benzina e diesel. Il via libera è stato deciso dal Consiglio dei Ministri dell’Ambiente dei Paesi dell’Unione Europea. Si tratta di una misura che fa parte dell’ambizioso piano di azione per contrastare il cambiamento climatico, ma non è esente da polemiche, e il giudizio degli automobilisti italiani è diviso. C’è infatti chi pensa che questo sia l’unico modo per ridurre le emissioni di gas serra e chi invece afferma che i tempi siano troppo stretti, con il rischio di demolire l’intera filiera automotive italiana.

I motori tradizionali sono “insostituibili”?

Secondo una ricerca del Centro Studi di AutoScout24 il giudizio non è positivo, anzi, quasi sette utenti su dieci valutano la misura negativamente, con i motori tradizionali che si confermano allo stato attuale ‘insostituibili’. Ma quali sono le motivazioni? Innanzitutto i tempi. Per quasi otto utenti su dieci, il 2035 è una data troppo ravvicinata per un cambiamento così epocale, un parere in linea con i Paesi che chiedono di posticiparne lo stop al 2040. Sul fronte dei costi, per la maggior parte degli utenti (90%) il prezzo delle auto elettriche è troppo alto e distante dal budget medio a disposizione degli automobilisti per l’acquisto di un’auto, dichiarato dagli intervistati dalla ricerca pari a circa 24.600 euro

Le barriere all’auto elettrica

Ma la vera barriera è di tipo tecnologico, e pochi credono che fra 13 anni ci sarà una vera ‘rivoluzione’ su questo fronte. Secondo l’86% degli intervistati, infatti, il livello tecnologico delle auto elettriche non è ancora adeguato in termini di batterie e autonomia, senza contare la carenza dell’infrastruttura italiana delle colonnine di ricarica, indicata dall’83% del campione. Una fotografia, quella scattata dalla ricerca, che poco si adatta alle abitudini degli automobilisti, dato che l’83% usa l’auto almeno cinque giorni a settimana, oltre quattro su dieci percorrono in media più di 20mila km l’anno e molti per spostamenti lunghi.

Come promuovere il passaggio verso una mobilità più green?

Poi c’è anche un aspetto ambientale, riporta Adnkronos. Solo pochi sostengono, il 7%, che le auto elettriche siano veramente green considerando tutto il ciclo di vita del prodotto, ed esprimono dubbi in merito al fatto che la misura servirà realmente a ridurre le emissioni e l’impatto ambientale (19%).
Inoltre, gli intervistati pensano che avremo il problema di come smaltire le batterie (84%).
Al contrario, i favorevoli pensano che solo con interventi decisi si potrà promuovere il passaggio verso una mobilità più green. Ma per il momento rappresentano la netta minoranza.

Mobilità elettrica e home working abbassano l’inquinamento urbano

Rendendo ‘elettrico’ anche solo l’1% dei veicoli privati più inquinanti in un centro urbano, la conseguente riduzione delle emissioni di CO2 sarebbe pari a quella ottenuta se una quantità 10 volte maggiore di veicoli scelti a caso fossero elettrici. Risultati analoghi si otterrebbero dall’applicazione dell’home working mirato ad evitare i viaggi sistematici da casa al lavoro anche solo di una porzione della popolazione. In città come Roma e Firenze, ma anche a Londra, il 10% delle strade più inquinate può arrivare a ‘ospitare’ quasi il 60% delle emissioni veicolari di tutta la città, e allo stesso modo, il 10% dei veicoli più inquinanti può arrivare a essere responsabile per ben più della metà delle emissioni.

È importante compiere scelte informate: lo conferma la scienza

Insomma, la mobilità elettrica e l’adozione dell’home working potrebbero abbassare i livelli di inquinamento ed emissioni nelle città. È quanto emerge da uno studio condotto dai ricercatori dell’Istituto di scienza e tecnologie dell’informazione del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isti) in collaborazione con il Dipartimento di ingegneria informatica, automatica e gestionale (Diag) della Sapienza Università di Roma. 

“Si tratta di una evidenza scientifica di quanto sia importante compiere scelte che siano informate”, commenta Mirco Nanni, ricercatore di Cnr-Isti che ha condotto lo studio e direttore del Kdd-Lab.

I divieti alla circolazione dovrebbero essere concepiti per chi inquina di più

“Misure come le cosiddette targhe alterne, ancora in voga fino a pochi anni fa, sono incredibilmente meno efficaci di politiche di riduzione delle emissioni che compiano invece scelte mirate – aggiunge Mirco Nanni -, come i più recenti divieti alla circolazione dei veicoli particolarmente inquinanti, o eventuali incentivi all’elettrico, che dovrebbero, però, essere concepiti per chi inquina di più”.

Ma chi inquina di più?

“Dal nostro lavoro emerge che chi si sposta in modo più prevedibile, come nel tragitto casa-lavoro, è responsabile di una maggiore fetta di emissioni di chi ha, invece, un comportamento di mobilità più erratico e imprevedibile”, spiega Luca Pappalardo ricercatore del Cnr-Isti e coordinatore dello studio.

Le politiche di riduzione delle emissioni veicolari devono essere mirate

Questo tipo di ricerche possono essere di aiuto ai decisori politici.
“Nel concepire politiche di riduzione delle emissioni veicolari che siano veramente efficaci e riescano, così, ad avere un impatto positivo sulle nostre città, bisogna conoscere il fenomeno in modo approfondito – sottolinea Matteo Böhm, dottorando della Sapienza e autore dello studio -. Solo con scelte informate, infatti, si può ‘sapere dove colpire’, e arrivare così a ottenere il massimo risultato. La nostra speranza è che studi come questo possano aiutare a raggiungere questo obiettivo”.

La pausa pranzo degli italiani: cambiamenti e desideri

Passata l’emergenza Covid, gli italiani hanno ripreso gran parte delle loro abitìni, anche per quanto riguarda la convivialità e la tavola. Secondo l’indagine dell’Osservatorio CIRFOOD DISTRICT, oggi i nostri connazionali sono ritornati a mangiare fuori casa anche per motivi di svago: più del 65%, infatti, dichiara di pranzare o cenare away from homeper ragioni diverse dal lavoro almeno due o tre volte al mese, aspetto che rimarca il desiderio di tornare a vivere momenti “live”. Ma cosa desiderano le persone quando mangiano fuori o a casa? L’analisi mette in luce tre macro tendenze. La prima è la ricerca degli ingredienti e delle materie prime, che rappresenta un fattore determinante: si richiede infatti qualità, italianità e stagionalità. Si presta inoltre attenzione alle caratteristiche nutrizionali degli alimenti: in particolare si guarda a cibi light e “free from” (ad esempio senza lattosio o glutine, zuccheri e sale). Il tutto sempre ricercando un buon rapporto qualità/prezzo – aspetto rilevante e irrinunciabile per 1 italiano su 4.

A casa, ma non solo

L’analisi riferisce che rispetto al periodo pre Covid c’è una quota di italiani che continua a vivere la propria pausa pranzo tra le mura domestiche. Questa rappresenta la tendenza in maggiore crescita con un + 31% rispetto al 2019. “Le progressive aperture che finalmente ci stanno portando a una vera normalità scardineranno questa situazione, ma alcune grandi organizzazioni ancora hanno lo smart working come modello organizzativo prevalente, per cui c’è ancora una parte di lavoratori che consuma la pausa pranzo a casa”, commenta Silvia Zucconi, responsabile Market Intelligence di Nomisma.
Una quota altrettanto elevata di dipendenti, tuttavia, consuma il pranzo nel ristorante aziendale, se disponibile, o nella ristorazione convenzionata con l’azienda. In particolare, tra coloro che lavorano in imprese che erogano questo servizio, 8 su 10 scelgono il ristorante aziendale.

I desiderata degli italiani

Dall’indagine si rileva la richiesta di una maggiore attenzione nei confronti dell’ambiente, durante la pausa pranzo nel ristorante aziendale o convenzionato, in particolare nella ricerca di confezioni con materiali riciclati e in un minore utilizzo della plastica (citato dal 59% di coloro che frequentano un ristorante aziendale e dal 43% di chi pranza in un ristorante convenzionato). 
Una considerevole percentuale di dipendenti, inoltre, vorrebbe che ci fossero specifiche informazioni relative all’impatto ambientale delle singole portate (72% e 53%). 
Tra i desiderata anche la presenza di portate pensate per soddisfare i diversi stili alimentari (60% e 47%) e per chi soffre di intolleranze (64% e 39%). 

Salute, il 53% degli italiani si informa su Internet

Per avere informazioni sulla salute gli italiani non fanno riferimento al medico o allo specialista. Almeno, non tutti. Il 53% dei nostri connazionali tra i 16 e i 74 anni di età preferisce usare Internet. In pratica una persona su due. Si tratta di un dato appena leggermente inferiore alla media europea, che si attesta al 55%. A confermarlo sono gli ultimi dati Eurostat, l’Ufficio statistico dell’Unione europea, riferiti all’anno 2021.
In particolare, su Internet i cittadini italiani ed europei cercano notizie relative alle malattie o alle cure, ma anche consigli per migliorare in generale il proprio benessere fisico. Ad esempio, cercando online informazioni e consigli sull’alimentazione. 

Un’abitudine sempre più diffusa in tutta Europa: +26% in dieci anni

Un’abitudine sempre più diffusa in tutta Europa, se si considera che nel 2011 la quota di europei che usavano il web per trovare informazioni sanitarie era del 38%, il 17% in più rispetto a dieci anni fa.  E in Italia nell’ultimo decennio il salto in avanti è stato addirittura di 26 punti percentuali: era il 27% nel 2011, e nel 2021 sale al 53%. Nell’ultimo decennio l’aumento è avvenuto in tutta Europa, anche se, secondo i dati diffusi da Eurostat, il salto più elevato è stato registrato a Cipro (+46% rispetto al 2011), seguita dalla Repubblica Ceca (+33), da Malta (+32) e Spagna (+31).

In Finlandia l’80% dei cittadini cerca risposte online su salute e benessere

La percentuale di persone che cercano informazioni sanitarie online per scopi privati continua comunque a essere molto diversa tra gli Stati membri. La quota maggiore, nel 2021, è stata registrata in Finlandia (80%), seguita da Paesi Bassi e Norvegia (entrambe con il 77%), Danimarca (75%) e Cipro (74%). Per le quote più basse bisogna guardare alla Bulgaria (36%), alla Romania (40%), alla Germania (45%) e alla Polonia (47%), riferisce Ansa.

La banca dati sanitaria della UE

Insomma, i cittadini della UE cercano online informazioni sanitarie relative a lesioni, malattie, alimentazione, migliorare la salute e il benessere. 
La pagina panoramica di Eurostat, sulla salute funge da punto di accesso a un’ampia gamma di dati disponibili, incentrati sulla salute pubblica e sulla salute e sicurezza sul lavoro. La sezione dedicata dà accesso diretto alla banca dati sanitaria, che contiene sezioni su stato di salute, determinanti sanitari, assistenza sanitaria, disabilità, cause di morte, e salute e sicurezza sul lavoro.  Se si cercano dati con analisi di accompagnamento, si può trovare la sezione Eurostat Statistics Explained, che contiene un elenco di tutti gli articoli e le pubblicazioni relative alla salute.